Tutto è iniziato a Roma, il 15 luglio 2015, nell’afa della Capitale.
«Al Mancini abbiamo lavorato bene e ci ritornerei: tanto caldo ma, verso sera, una brezza piacevole. Come vedete, non è indispensabile andare in altura...».
Dove si immaginava alla fine della stagione?
«Dovevo mettere a fuoco alcuni calciatori, anche come uomini, che è una parte molto importante. E dovevo costruire una mentalità nuova rispetto al passato. Non pensavo a pormi degli obiettivi molto in là: pensavo a costruire un atteggiamento, una mentalità, a costruire il concetto di squadra. Però la voglia di confrontarci con i migliori e vincere le partite l’abbiamo sempre avuta. E, come ha detto l’avvocato Vigorito, non puoi vincerle perché fai un tiro sbilenco e segni: infatti, le abbiamo sempre vinte diversamente, con un percorso di grande crescita, individuale e di squadra».
Tanti pregiudizi sul valore tecnico della Lega Pro, lei dimostra che si può vincere giocando a calcio. Chi sbaglia?
«Non giudico gli altri, io il calcio lo vedo così, come le mie squadre lo esprimono. In gara ci sono tanti aspetti, non devi essere superiore all’avversario su uno soltanto. Non c’è solo il possesso palla o la supremazia territoriale: devi essere bravo a non concedere campo, a non dare opportunità e a costruire le tue occasioni. Si può giocare a calcio in C, le mie squadre l’hanno sempre fatto. Il mio Benevento ha vinto attraverso il gioco».
E’ il risultato più bello della sua carriera?
«Perché è l’ultimo, però di risultati ne ho fatti tanti, tutti belli e tutti meritati. Questo ha un sapore particolare, perché ha il sapore di una sfida. E le sfide, con me stesso e con gli altri, mi esaltano».
Il Benevento è la sua squadra più bella?
«A fine anno lo era anche il Matera, che giocava a memoria. Il Benevento è una squadra forte, e ora lo è molto di più perché all’interno del gruppo sono cresciuti tanti giocatori».
Chi è cresciuto di più?
«De Falco: non mi ha sorpreso, ma rientrava da un lungo problema fisico. O Cissé, che altri dicevano che doveva andare via a gennaio, ma per me non è mai stato così. A mercato chiuso ci siamo guardati negli occhi e gli ho ricordato quello che gli avevo detto due mesi prima: che per me non doveva andare via, perché stava crescendo e aveva qualità importanti. Ma anche Mattera, Melara...».
Crescita individuale e collettiva.
«Eravamo già squadra dopo due mesi di lavoro, altrimenti alla 3ª giornata non batti in modo perentorio il Foggia, una squadra che da un anno lavorava insieme e che veniva da un’estate completamente diversa dalla nostra. A Benevento non mi sono mai nascosto ma sapevo che c’era bisogno di un po’ di tempo. Le squadre di Auteri sono così: se dai continuità al lavoro, la crescita poi è esponenziale. Dicevo del Foggia: quello è stato un autentico fallimento. Non devono essere contenti di aver chiuso dietro di noi...».
I play off chi li vince?
«Il Foggia. Doveva stravincere il campionato, vincerà gli spareggi per forza».
Troppe polemiche incrociate, quest’anno.
«E non è un problema di tanti siti “militanti”: nell’epoca multimediale scrivono proprio tutti, ma ci può anche stare. Il problema è che certe cose sono state dette dai protagonisti: si è parlato troppo. Noi siamo stati sempre tirati in ballo, io non mi sono mai permesso di giudicare nessuno. A volte, però, non sei capito: io non metto mai le mani avanti e le mie responsabilità me le prendo. Parlano e fanno parlare tutti, ma proprio tutti. Ho visto poco rispetto e tanta maleducazione».
Con Braglia com’è andata?
«Di Braglia ho grande stima. Abbiamo idee diverse dal punto di vista calcistico, ma lui è un toscano vero, una persona reale, sa giudicare il lavoro degli altri. Non è come altri che volevano indottrinarci, giovani che scopiazzano...».
De Zerbi?
«E’ una storia nata l’anno scorso, quando ero a Matera: noi ci preparavamo ai play off, il suo Foggia non c’era arrivato, pur essendo per me già forte. In una intervista spiego che i risultati li ho sempre ottenuti sul campo, che non sono abituato a costruire rapporti basati sulla ruffianeria e che la possibilità di partire dall’alto non me l’ha mai data nessuno. Feci due esempi di giovani allenatori partiti subito da grandi club: Inzaghi, che era al Milan, e De Zerbi al Foggia, tanto per parlare della nostra Lega Pro. Lungi da me fare polemica o candidarmi alla guida del Foggia. Avevo parlato bene di lui anche alla vigilia della sfida d’andata quest’anno, e invece...».
I modelli di Auteri?
«Ho smesso di giocare presto, a trent’anni ho iniziato come allenatore dei portieri all’Atletico Leonzio del presidente Franco Proto, che mi riteneva una risorsa. Ma dopo due mesi ero già in panchina, anche senza patentino, e vinsi subito il campionato di C2. Ho fatto di tutto, anche il preparatore atletico. Alleno da una vita: se hai delle idee e rifletti su ciò che fai e ciò che vedi, costruisci un modello di calcio che appartiene a te, solo a te».
E Fascetti?
«In quegli anni era un precursore, proponeva un modello di calcio senza riferimenti, con grande intensità, squadra corta, difesa alta, fuorigioco esasperato a metà campo. In quel momento produceva risultati, poi le cose cambiano nel tempo».
Come definirebbe il calcio di Auteri?
«Coralità di gioco, equilibrio, che significa attaccare ma senza esporsi, mantenendo il campo che prendi agli avversari attraverso lo sviluppo del gioco. Mi piace creare occasioni, poi fare gol dipende dalle qualità dei giocatori. E sono contento anche quando la mia squadra non concede palle gol agli avversari. Il Benevento l’ha fatto, nonostante qualcosa all’andata...».
Lei non è di quelli che si portano lo psicologo o il motivatore in panchina...
«Mi hanno criticato perché alla seconda giornata, con il Messina, avevo cambiato dieci giocatori, ma lo rifarei: io motivo così. Per carità, sono pure favorevole a queste figure, ma bisogna essere diretti: il messaggio dell’allenatore è sempre diverso, incide di più. E vale anche sul lavoro atletico».
Il momento della svolta?
«Le ultime quattro-cinque partite: Casertana, Catania, la doppia trasferta Pagani-Castellammare, anche quella di Martina. Sono le gare in cui fare punti decide la classifica. Costruisci e devi raccogliere i frutti».
Come ha vissuto la vigilia di Benevento-Lecce?
«Ho cominciato ad avere qualche pensiero in più il sabato mattina, mi sforzavo di capire a cosa potessero pensare alcuni miei giocatori, meno abituati sul piano mentale a certe partite. Ho dato sostegno a chi ne aveva bisogno perché la troppa pressione può schiacciarti».
Lucioni è il suo capitano ideale?
«Strepitoso. Non avevo mai visto Lucioni giocare così, eppure lo conosco da tanti anni...».
Perché giocava ancora in Lega Pro?
«Sono i misteri del calcio. Evidentemente perché noi addetti ai lavori, e intendo tutti, questa grande cognizione del calcio alla fine non ce l’abbiamo...».
Che Benevento vedremo in B?
«Abbiamo ancora degli impegni, per cominciare a pensare ad altre cose occorre che la società cominci a stabilire delle linee guida e credo che avverrà a breve».
E conoscendo l’avvocato Vigorito, saranno linee ambiziose...
«Quest’anno si è presentato con me a inizio stagione, poi ci ha fatto solo da sponsor e invece l’avrei voluto quotidianamente con noi, anche se lo è sempre stato dall’esterno. Se ho accettato la sfida di Benevento è perché quello che i fratelli Vigorito hanno dato in questi dieci anni di calcio mi ha sempre colpito: modelli organizzativi incredibili per la Lega Pro, una grande maturità, un grande rispetto verso gli altri, grandi valori. Queste persone sono una rarità nel calcio. E poi mi sono sempre detto: ma come fanno a non vincere? Se sono qui è perché c’era lui, l’avvocato Vigorito, e così deve continuare a essere».
La Supercoppa?
«Gli impegni si onorano, avremo voglia di confrontarci con le altre che hanno vinto. Non credo sia già un assaggio di B, però abbiamo voglia di misurarci con le migliori. Ho visto Spal e Cittadella, conosco i giocatori, ma chiudiamo prima il campionato».
Ettore Intorcia