Se il derby era in programma la domenica sera, di solito lui entrava in partita al giovedì mattina: quindi con quattro giorni di anticipo.
Studiava gli avversari, parlava pochissimo, guardava e riguardava video e nella sua testa esisteva soltanto la sfida, nient’altro: pasta in bianco, bresaola o petto di pollo, un frutto e un caffè. Considerando che adesso si giocherà mercoledì sera, per quanto il suo ruolo sia cambiato e da centravanti si sia magicamente trasformato in allenatore, si può tranquillamente sostenere che Pippo Inzaghi è già da qualche ora «sul pezzo», completamente immerso in qualcosa che succederà ma di cui lui, con le sue mosse e le sue idee, può indirizzare il percorso. Inutile negarlo: Benevento-Inter, per Pippo, è una riedizione del derby di San Siro, perché lui quando vede nerazzurro non capisce più nulla, pare tarantolato, sempre pronto a scattare sul filo del fuorigioco e a beffare gli avversari. Come spesso gli è capitato in carriera e come sogna, dopo la grande rimonta del suo Benevento a Marassi, si possa ripetere.
Tensione unica Pippo, da centravanti, sapeva accendere la passione della gente con un semplice gesto, alzava il braccio a indicare al compagno dove voleva il pallone e poi cominciava a correre come un pazzo per andarlo a prendere, e i fedeli rossoneri vedevano in lui il profeta che li avrebbe condotti alla salvezza.
Il derby, più di altre partite, anche più delle sfide di Chapions, era per Pippo qualcosa di speciale, di mistico, quasi di religioso.
Lo preparava con la cura maniacale che è sempre stata la bussola della sua vita da calciatore, verso le cinque del pomeriggio (sempre la partita era di sera) gli si chiudeva lo stomaco e iniziava «a sentire le farfalle» che gli si agitavano dentro e gli trasmettevano quell’adrenalina che lui riversava sul campo.
Prima di imboccare la scaletta che porta dentro San Siro, nel chiuso dello spogliatoio, a Pippo non c’era bisogno di dire nulla: Ancelotti lo guardava negli occhi ed era sufficiente così.
Le parole avrebbero reso precario quel sottile equilibrio grazie al quale, da giorni, Inzaghi si reggeva in piedi. Un fascio di nervi, e non di muscoli, ma da quei nervi uscivano l’astuzia, la furbizia, il colpo decisivo.
Un’altra cosa. Da allenatore del Benevento la storia sarà diversa: è diventato più maturo, è cambiato, adesso ha la responsabilità di un gruppo intero e non soltanto di se stesso. Però la passione è identica al passato, quando si lamentava con Serginho perché il cross non era stato preciso o se la prendeva con l’arbitro perché un difensore dell’Inter gli aveva tirato la maglia, oppure correva ad abbracciare Pirlo o Kakà che gli avevano servito l’assist perfetto e lui l’aveva messa dentro.
Gol e ricordi- La prima rete nel derby la realizzò il 21 ottobre 2001 in un 4-2 per i rossoneri, l’ultima il 4 maggio 2008 nel 2-1 per i milanisti.
In termini di marcature Pippo non ha il curriculum di Shevchenko che con 14 reti è il principe dei cannonieri del derby: Inzaghi si è fermato a 4.
Adesso, da allenatore, pur sapendo che non riuscirà a nascondere l’emozione quando vedrà il nerazzurro e allora gli torneranno in mente le sue battaglie, dovrà mantenere un certo stile. Le farfalle, però, inizieranno a muoversi nello stomaco, esattamente come un tempo, e l’unica soluzione per placare l’ansia sarà prendere da parte Moncini o Lapadula, Caprari o Roberto Insigne, e dire loro una cosa semplice: fate come facevo io, divertitevi e date l’anima.
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